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Alitalia, partita da 30 mila posti

Alitalia, partita da 30 mila posti
Non si capisce perché si debbano dare soldi dei contribuenti a una società privata
Etihad rafforza l'asse con Lufthansa mentre Alitalia a otto anni dalla privatizzazione torna alle vecchie abitudini e si prepara a chiedere aiuto al suo salvatore di sempre: lo Stato. Mettendo sul piatto i 29.700 posti di lavoro a rischio ( indotto compreso) e i 4,7 miliardi di Pil dati Oxford Economics garantiti ogni anno al Belpaese.

Le carte formalmente sono ancora coperte. Ma le richieste di soci e sindacati a Roma sono chiare: i lavoratori vogliono garanzie sugli ammortizzatori sociali per assorbire eventuali esuberi (la cassa integrazione decisa nel 2008 è già costata ai contribuenti 1,5 miliardi ). Etihad non chiede soldi ma interventi normativi e diplomatici. Uno l'ha già ottenuto: il pressing dell'esecutivo per convincere le banche italiane a riaprire i cordoni della borsa sotto Natale, quando mancavano i soldi per fare il pieno agli aerei. Gli altri sono da qualche settimana sul tavolo del governo: nuove regole per frenare l'arrembaggio delle low-cost ( o perlomeno avere par condicio negli aeroporti), mani libere su Linate, sostegni per servire scali anti-economici e la promessa di un blitz diplomatico su Parigi per ammorbidire la gabbia della joint venture transatlantica con Air France.

La privatizzazione, insomma, non ha cambiato il copione della via crucis Alitalia. I soci hanno fatto e faranno la loro parte, mettendo in pochi mesi un altro miliardo nella compagnia. Ma il salvataggio rischia di passare un'altra volta da un salvagente pubblico. I numeri, dicono i potenziali beneficiari, sono lì a giustificarlo: la società – calcola Oxford Economics – dà lavoro a 10.400 persone, 8.600 nell'indotto diretto e altre 10.700 in quello indiretto per un totale di 29.700 persone. Calcolando l'impatto sul turismo, si arriva a 75.500. «Aiutarla è una scelta inevitabile – sostiene Stefano De Carlo, segretario generale dei piloti Anpac - La società è un valore per il paese. Teniamo in piedi rotte come quelle per Sardegna e Lampedusa. Un fallimento è inaccettabile perché nessun concorrente si farebbe carico di destinazioni su cui oggi si vola più per motivi 'sociali' che per il ritorno economico». Come dimostra il braccio di ferro sui voli per Reggio Calabria.

«Roma deve decidere se Alitalia è un'azienda di interesse nazionale aggiunge Nino Cortorillo, segretario nazionale della Filt-Cgil Nessuno chiede che lo Stato entri nel capitale. Ma spostare competenze, traffico e ricchezza fuori dal paese è un rischio». La prova? Tanto il Belgio come la Svizzera – sottolineano i teorici degli aiuti pubblici - hanno impiegato anni per recuperare il traffico perso con i crac di Sabena e Swissair: lo scalo di Bruxelles è tornato solo nel 2014 al livello di traffico del 2000, Zurigo è cresciuta nello stesso periodo da 22 a 26 milioni di passeggeri mentre Roma partita dallo stesso livello è volata a 40 milioni.

I numeri, a dire il vero, danno credito anche a letture opposte: «Non si capisce perché si debbano dare soldi dei contribuenti a una società privata-dice Andrea Giuricin del think tank ultraliberista Bruno Leoni - Ok, il governo deve tenere conto delle ricadute sociali, specie a Fiumicino. Ma il traffico aereo nei cieli tricolori è cresciuto dal 1997 ad oggi del 150% malgrado la crisi della ex compagnia di bandiera. Alitalia fatica a lanciare voli per Pechino? No problem, ci sono numerosi vettori cinesi che garantiscono il collegamento». Dove c'è domanda, insomma, l'offerta si trova, anche se non sotto la livrea tricolore.

«Lo Stato ha già dato molto aggiunge Oliviero Baccelli, docente di politica dei trasporti alla Bocconi -. Non c'è giustificazione economica a nuovi aiuti». Quello che può fare Roma, aggiunge, è «supportare iniziative che sviluppino un rapporto corretto con gli aeroporti». Riequilibrando gli incentivi che oggi privilegiano le low cost lasciando ad Alitalia l'onere di servire scali inutili ma 'politicamente' molto sensibili.

www.brunoleoni.it
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