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Il liberalismo non ha i giorni contati
Ma deve tornare a essere ambizioso e saper parlare ai pessimisti, scrive l'Economist, dopo le sconfitte Brexit e Trump.
Nel suo ultimo numero del 2016, pubblicato il 24 dicembre, l’Economist ha pubblicato un articolo che prova a mettere ordine ai cambiamenti politici – e quindi anche economici e sociali – del 2016. L’articolo – disponibile anche online, con il titolo “Come dare un senso al 2016” – inizia dicendo che, «per certi liberali, il 2016 è stato una strigliata».
L’Economist si riferisce a chi crede nei principi del libero mercato, della concorrenza, della libera circolazione delle persone e delle merci da una nazione all’altra, della perdita di importanza e sovranità delle singole nazioni a vantaggio di organismi sovranazionali, e più in generale di diritti universali, tolleranza e apertura: persone e idee che nel 2016 sono state sconfitte non solo da Donald Trump negli Stati Uniti – eletto con un programma isolazionista e apertamente no global – e dai sostenitori della Brexit al referendum sull’UE in Regno Unito, ma anche più in generale da uno scenario in cui «la globalizzazione è diventata una beffa e il nazionalismo – persino la dittatura – ha prosperato». I riferimenti sono alle Filippine di Rodrigo Duterte, alla Polonia, all’Ungheria, alla Turchia, alla Russia e ai suoi hacker e alla Cina. Negli ultimi mesi del 2016 quindi qualcuno ha parlato della fine del liberalismo così come lo conosciamo, mentre altri hanno detto che basterebbe solo qualche accorgimento alle leggi sull’immigrazione o qualche tassa in più per rimettere tutto a posto. L’Economist non è d’accordo:
Negli ultimi 25 anni il liberalismo ha avuto vita troppo facile. ll suo grande predominio seguito alla caduta dell’Unione Sovietica si è deteriorato, diventando pigrizia e noncuranza. Mentre crescevano le disuguaglianze, i vincitori della società si raccontavano che stavano vivendo in una meritocrazia e che il loro successo era, di conseguenza, meritato. Gli esperti chiamati a governare grandi pezzi dell’economia si beavano della loro stessa brillantezza. Ma le persone normali vedevano spesso la ricchezza come sinonimo di privilegi e la competenza come un celato interesse per se stessi.
Dopo così tanto tempo al comando, i liberali sono quelli che, più di tutti, avrebbero dovuto accorgersi del contraccolpo che stava per arrivare. Il liberalismo è un ordine di idee che emerse all’inizio del Diciannovesimo secolo in opposizione al dispotismo delle monarchie assolute e al terrore delle rivoluzioni, e nacque proprio avvisando che un potere ininterrotto finisce per logorarsi. Il privilegio finisce per perpetuarsi da solo. Il consenso soffoca la creatività e lo spirito d’iniziativa. In un mondo che continua a cambiare, dibattiti e litigi non sono solo inevitabili: sono anche benvenuti, perché portano al rinnovamento.
L’Economist ha scritto che nel Diciannovesimo secolo – «così come ora» – le persone volevano più di ogni altra cosa un po’ di ordine. Qualcuno, i più conservatori, cercava di rallentare i cambiamenti della società; qualcun altro – i rivoluzionari – volevano invece sovvertire l’autorità e cambiarla tutta o quasi, la società.
I liberali arrivarono con un’idea diversa. Anziché essere concentrati, i poteri avrebbero dovuto essere sparsi: e quindi servivano leggi, partiti e mercati competitivi. Anziché mettere i cittadini al servizio di uno stato potente e protettivo, il liberalismo vide gli individui come capaci di scegliere da soli cosa sarebbe stato meglio per loro. Anziché governare il mondo con lotte e sussidi economici, gli stati avrebbero dovuto basarsi su mercato e trattative.
Sono idee che fanno parte dell’identità dell’Occidente, ha scritto l’Economist, che ha però parlato di un problema di base del liberalismo attuale: «la perdita di fede nel progresso». Come da mesi ricorda anche il presidente degli Stati Uniti Barack Obama in molti suoi discorsi, secondo un gran numero di parametri – guerre, redditi, malattie, fame – non c’è mai stato, in tutta la storia dell’umanità, un miglior periodo di questo. Come ha scritto l’Economist: «Per la maggior parte delle persone sulla Terra non c’è mai stato un miglior momento per essere vivi».
Nonostante questo, grandi pezzi dell’Occidente non la pensano così. Per loro il progresso è una cosa che ha riguardato soprattutto altre persone. La ricchezza non si distribuisce da sola, le nuove tecnologie eliminano posti di lavoro che non torneranno mai più, c’è una sotto-classe che non si può più aiutare o salvare, e ci sono altre culture che rappresentano una minaccia, in certi casi una minaccia violenta.
Se vuole sopravvivere, il liberalismo deve dare risposte anche ai pessimisti. Invece, in questi decenni in cui sono stati al potere, i liberali hanno offerto soluzioni deludenti. Nel Diciannovesimo secolo i liberali hanno portato cambiamenti come l’istruzione universale, un ampio programma di opere pubbliche e le prime regole per i diritti dei lavoratori. Dopodiché i cittadini hanno ottenuto il diritto di voto, l’assistenza sanitaria e una rete di protezione. E gli Stati Uniti hanno costruito un ordine liberale globale, usando organi come le Nazioni Unite e il Fondo Monetario Internazionale per dare forma ai loro ideali.
Secondo l’Economist il problema è che negli ultimi decenni dall’Occidente non è arrivato «niente che fosse ambizioso almeno la metà di quelle cose». L’Economist suggerisce quindi di sfruttare le nuove tecnologie, di trasferire certi poteri a livello locale, di cambiare e rendere più razionali certe tasse e certe regole. L’Economist spiega anche di essere preoccupato da Trump e da Brexit, che potrebbero essere «dannosi e pericolosi», ma di considerare comunque ragionevole la possibilità di una ripartenza liberale:
Il 2016 ha anche reso evidente una richiesta di cambiamento. Non bisogna mai dimenticarsi che i liberali sanno reinventarsi. Non bisogna sottovalutare la capacità delle persone – anche di un’amministrazione Trump o di un Regno Unito post-Brexit – di pensare e trovare, innovando, una strada per uscire dai problemi. Il compito è imbrigliare quell’irrequieto desiderio, difendendo allo stesso tempo la tolleranza e la larghezza di vedute che sono la pietra fondante di un mondo liberale, per bene.