Quando è legittimo resistere al potere

Quando è legittimo resistere al potere
Alberto Mngardi - www.brunoleoni.it
Una riflessione che torna d’attualità di fronte a giri di vite autoritari come in Venezuela e in Turchia: finito il tempo dei monarcomachi resta valido il principio per cui è giusto e doveroso opporsi ai tiranni«Sic semper tyrannis». Così Bruto liberava Roma dall’ambizione di Cesare, l’uomo che stava per sovvertire la repubblica. Ripeté le stesse parole l’attore John Wilkes Booth mentre sparava, a guerra civile conclusa, a Abraham Lincoln, un signore in cravatta e panciotto nel suo palco a teatro.

Quant’è sottile la linea che separa il tirannicidio dall’assassinio comune. È il destino del vocabolario politico, fatto di parole stentoree e flessibili quant’altre mai. La Costituzione sovietica del ‘36 garantiva il suffragio universale diretto, ma gli elettori potevano votare solo il Partito comunista. L’Urss si dichiarava «protettrice della libertà dei popoli»: quella libertà poteva coincidere soltanto con l’allineamento ai desideri di Mosca. La Dichiarazione del 1789 inserisce tra i «diritti naturali e imprescrittibili dell’uomo» la libertà, la proprietà, la sicurezza e «la resistenza all’oppressione». Quattro anni dopo, la Francia sarà teatro di un’oppressione che non ammetteva resistenza.

I diritti inalienabili
Ogni tanto, però, dobbiamo provare a pensare più chiaro. Pensiamo solo alle intermittenti notizie che arrivano dal Venezuela o alle ombre che si allungano sulla Turchia di Erdogan. Maduro trattiene in carcere 114 prigionieri politici. A Caracas i procuratori che indagano sui brogli elettorali sono costretti alle dimissioni, a Istanbul gli avvocati che difendono gli insegnanti arrestati dopo il presunto golpe finiscono in galera anch’essi.

Dove comincia la tirannia, quand’è che la resistenza diventa legittima?

Nella Dichiarazione d’Indipendenza americana (1776) si legge che il governo è istituito allo scopo di garantire i diritti inalienabili alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità. Proprio per questo «ogni qual volta una qualsiasi forma di Governo tende a negare tali fini, è Diritto del Popolo modificarlo o distruggerlo» e crearne uno nuovo. È quel che fecero i Padri fondatori. Ma, per quanto conoscessero a menadito il pensiero politico classico e moderno, la loro ribellione avveniva su uno sfondo chiaro. Ciò che riusciva intollerabile era che la Corona si rifiutasse di trattarli come i loro cugini inglesi. Paragonavano le concrete condizioni di libertà di cui godevano nelle colonie (inclusa la libertà di commerciare) a quelle della madrepatria. La resistenza avveniva in nome di diritti considerati parte di un ordine giusto e possibile, dal quale era Londra ad averli esclusi.
La ribellione serviva per ripristinare, non per sabotare, il diritto. Nel suo Policraticus (1159) Giovanni di Salisbury scrive che «chiunque non agisca contro [il tiranno] tradisce sé stesso e tutto il corpo di leggi della repubblica terrena». Giovanni aveva una visione organicistica delle istituzioni pubbliche, «una specie di corpo che vive per concessione divina, agisce sotto lo stimolo della suprema equità ed è retto dalla guida della ragione». In presenza di un capo tirannico, la rivolta era un meccanismo antibiotico.

Una legge più grande
Quando la High Court costituita dal Corto Parlamento condanna a morte Carlo I (1649), è un avvocato puritano, John Cooke, a produrre le prove contro un re colpevole di opprimere i suoi sudditi. Il procedimento legale a carico del sovrano, sostiene George Robertson nel suo The Tyrannicide Brief (2005), gettò le basi per i moderni processi internazionali a Milosevic o Saddam Hussein. Come in quei casi, si può sospettare che il verdetto fosse già scritto. Però guai a sottovalutarne il valore simbolico. Nella forma del dibattimento, nel ricorso a un tribunale, diventa evidente che la liberazione dal tiranno è riaffermazione di un ordine giuridico contro il suo sabotatore.

Ciò che rende legittima la resistenza a un potere è la credenza diffusa in una legge più grande: il diritto naturale, che sovrasta le nazioni e i Parlamenti. Il capostipite del giusnaturalismo liberale, John Locke (1690), parla di «appello al cielo». Per Locke, la libertà è di per sé il contrario della tirannide: è «libertà dal potere assoluto e arbitrario», non «sottoposta ad altro potere legislativo che quello stabilito per consenso».

Lo Stato ha un compito ben definito: dirimere le controversie che possono emergere tra le persone. Quando però la controversia è tra un popolo «privato del proprio diritto» e chi esercita «un potere destituito di diritto», non c’è magistrato a cui potersi rivolgere. Bisogna «appellarsi al cielo»: la ribellione ai tiranni è obbedienza a Dio, o perlomeno a quella legge naturale che come Dio è superiore alle bassezze dei mortali.

Prima di Locke, erano stati i «monarcomachi» a teorizzare il diritto di resistenza. Per la maggior parte di costoro, tuttavia, il tirannicidio era accettabile solo se a impugnare il pugnale era un’autorità di rango inferiore. Un gesuita spagnolo, Juan de Mariana, nel De rege (1599), aveva invece teorizzato il tirannicidio per iniziativa privata. Se gli uomini saggi del regno comprendono che la condotta del re è contraria all’interesse pubblico e al diritto di natura, è ammissibile detronizzarlo.

Che rimane, di tutto questo, in un tempo secolarizzato, in cui Dio è solo un’ombra lontana, figurarsi le sue leggi? C’è sempre il rischio che si abusi del diritto di resistenza, per occultare la violenza privata. Il principio per cui ci si deve opporre a un potere ingiusto, però, è al cuore di tutti i nostri tentativi di costruire un potere meno arbitrario, più prevedibile: per esempio attraverso una Costituzione.

Chi attenta alla libertà
Rimane allora l’idea che esistono «condizioni della libertà» che è possibile comprendere come tali, perché ne abbiamo esperienza. Che chi utilizza il proprio potere per erodere queste «condizioni della libertà», per imprigionare chi la pensa diversamente, per spossessare gli oppositori politici, si pone al di fuori di qualsiasi concetto di giustizia. Quando questo avviene, significa che il potere si è liberato di ogni vincolo.

Forse, invece, ci sono cose che proprio nessuno dovrebbe poter fare: anche se non crediamo più che offendano, anzitutto, il volere di Dio. Non deve poterle fare nemmeno se invoca la benedizione di idoli terreni come Fidel Castro o Hugo Chávez.
(da La Stampa)

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Estratto da www.noiliberali.it/post.asp?id=68