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La situazione si aggrava ma forse la fine della stagione populista si avvicina
Quando, verranno a maturazione gli esiti della manovra di bilancio di marca pentaleghista, si vedrà che non solo essi non generano crescita, al contrario di quanto sbandierato da chi l’ha realizzata, ma addirittura producono effetti pesantemente recessivi.
Ai suoi albori, prima ancora del voto del 4 marzo e a maggior ragione subito dopo, scrivemmo che questa legislatura si sarebbe rivelata sciaguratamente inutile – e quindi dannosa – per quanto riguarda la capacità di rimettere il paese in careggiata, mentre avrebbe potuto rivelarsi suo malgrado utile per liberare il sistema politico dalle tossine del populismo il più velocemente possibile, o quantomeno ridurle. Sul primo pronostico abbiamo sbagliato per difetto, nel senso che la realtà è andata ben al di là dei nostri già foschi presagi. E sì, perché con l’arrivo della recessione – la terza in dieci anni, e per di più solo in Italia mentre le precedenti erano una mondiale e l’altra europea – si è andati ben al di là dell’incapacità di fermare il declino, e si è entrati nella dimensione della capacità di alimentarlo. E la cosa diventerà ancor più evidente quando, venendo a maturazione gli esiti della manovra di bilancio di marca pentaleghista, si vedrà che non solo essi non generano crescita, al contrario di quanto sbandierato da chi l’ha realizzata, ma addirittura producono effetti pesantemente recessivi, soprattutto per la duplice castrazione degli investimenti, quella diretta per via della riduzione di quelli pubblici, e quella indiretta, prodotta dalla sfiducia ingenerata negli operatori nazionali ed esteri, che ha come inevitabile conseguenza il blocco o comunque il rinvio di quelli privati.
È invece ancora presto per dire se abbiamo azzeccato la seconda previsione – che in realtà, confessiamo, era ed è soprattutto un auspicio – ma qualcosa ci dice che presto potrebbe rivelarsi una profezia capace di prendere corpo. Infatti, dicemmo allora che questa 18ma legislatura non sarebbe stata del tutto da buttar via se, prima di tutto, avesse prodotto le condizioni di un ridimensionamento e persino di una spaccatura del movimento 5stelle. In secondo luogo, sostenemmo che poteva considerarsi positivo, anzi molto positivo, il verificarsi della circostanza in base alla quale Matteo Salvini si trovasse costretto – per dinamiche interne alla Lega e/o per condizioni esterne – ad allearsi con una o più forze moderate e di centro, temperando così le sue eccessive durezze (immigrati), le fughe in avanti sui temi economici (Fornero), il sovranismo anti-europeo e isolazionista, le amicizie pericolose (Putin).
Sui pentastellati siamo a buon punto. L’uno-due subito in Abruzzo e Sardegna è stato micidiale, sia per il risultato in sé sia per quell’effetto tendenza che un crollo di quella portata è in grado di generare nell’elettorato, mettendo una seria ipoteca sul voto europeo di maggio. Ma è soprattutto l’effetto politico immediato che questa doppia sconfitta innesca che ci induce a pensare che anche l’ipotesi di una spaccatura sia alle viste. Per meglio dire, l’alternativa tra una spaccatura dentro i 5stelle o tra loro e la Lega. Delle due l’una, infatti: o le difficoltà spingono Grillo e l’ala oltranzista a rompere con Di Maio di fronte alla sua (eventuale) indisponibilità di rompere con Salvini o comunque di alzare il tiro nei confronti dell’alleato, e allora si produce la doppia conseguenza della spaccatura “da sinistra” del movimento pentastellato e la fine del governo; oppure, il giovane leader dei 5stelle, per non finire all’angolo in questa fase di estrema debolezza, accetta di dismettere i panni del governativo doroteo per indossare quelli del barricadero, e allora sarà Salvini ad essere costretto a rompere, considerato che già ora si muove pericolosamente sulla linea di confine che separa la sua popolarità dalla caduta della medesima, specie al Nord, per colpa dei compromessi e dei rinvii che la convivenza con lo scomodo alleato gli impone. Ci sono poi una terza e una quarta circostanza, che completano il quadro delle possibili evoluzioni del quadro politico. Una è che sia Di Maio, forte della presa che ha su una larga fetta, probabilmente maggioritaria, dei parlamentari pentastellati, a rompere, di sua iniziativa, con i Fico e i Di Battista. Per poi offrire a Salvini un’alleanza affidabile e un’alternativa a Berlusconi (considerato che il capo della Lega può contare sulla pattuglia della Meloni e su un gruppo di potenziali transfughi da Forza Italia).
Ma sarebbe una mossa che richiede tempra e intelligenza politica, che non sembrano propriamente essere le caratteristiche del ragazzo di Pomigliano. L’ultimo scenario è invece il peggiore di tutti: la continuità. E non solo fino alle elezioni europee, che è cosa ormai acquisita – ogni giorno che passa scendono le già basse probabilità di caduta del governo Conte ante 26 maggio – ma anche dopo. Magari per effetto di un risultato insoddisfacente per entrambi gli azionisti del governo gialloverde – seppure in diversa misura: in assoluto per i 5stelle, in relazione alle grandi aspettative alimentate dai sondaggi per la Lega – che potrebbe indurli a non rischiare un voto politico anticipato. Naturalmente sarebbe un quadro di paralisi, come già è stato da gennaio in poi e come ancor più sarà di qui al voto europeo, visto che ormai il “contratto di governo” ha bene o male esaurito la sua funzione con la manovra di bilancio e che non esistono più le condizioni politiche per scriverne un altro. Paralisi che produrrebbe danni devastanti per il Paese, perché finirebbe con il peggiorare e consolidare la recessione, facendogli pagare un prezzo troppo alto a fronte della pur positiva consunzione della stagione populista.
Vedremo quali di queste diverse strade prenderà il corso delle cose. Molto, se non tutto, dipenderà da Salvini. Tanto più capisce che l’affermazione che fin qui ha avuto poggia su basi fragili e potrebbe evaporare con la stessa velocità con cui è formata, e tanto meglio sarà per lui e per noi. Se invece gli sfugge che le insidie non gli vengono dagli avversari, che sono troppo deboli per impensierirlo, ma dal logoramento che gli procura l’alleanza con i grillini – e il risultato molto deludente della Sardegna è una spia accesa che dovrebbe farlo riflettere – allora finirà col pagarne il prezzo già con il voto europeo, innescando scenari ben più complessi di quanto oggi lui consideri l’eventualità di un ritorno al vecchio centro-destra, mostrando un eccesso di spavalderia che gli potrebbe ritorcersi contro. È vero, infatti, che la semplice prospettiva di tornare al vecchio schema di alleanza con Berlusconi è povero di prospettive, ma non irto di spine è il percorso che Salvini si è messo in testa, e cioè quello di emanciparsi una volta per tutte dal Cavaliere e da quel che resta di Forza Italia.
Come può pensare di farlo agitando parole d’ordine e praticando scelte estreme, quando la maggioranza degli italiani è sì non di sinistra, ma nemmeno di destra. A prevalere, oggi come ieri, è la componente moderata, che non ama le forzature sul piano interno e le sparate in Europa, e che oggi pretende una risposta, e non il silenzio assordante che oggi Salvini gli offre, sul come invertire la rotta in economia. Risposta che non può essere, specie al Nord, il micidiale binomio del fare deficit per pagare chi non lavora (reddito di cittadinanza) e per aiutare chi vuole smettere anticipatamente di farlo (quota 100) in cui fin qui ha consistito la ricetta di Salvini e frutto della sua alleanza con Di Maio. E, ci pare di capire, ci sono ampie zone del suo stesso partito – si vedano le ultime esternazioni di Bobo Maroni – che spingono in direzione diversa da quella fin qui seguita dal leader della Lega.
Per questo, suggeriamo a Salvini di andarsi a rileggere la storia delle alleanze che la Dc ha fatto dal 1948 in poi, prima in chiave centrista e poi realizzando il centro-sinistra con il Psi. Può sembrare retrò, ma consigliamo vivamente di non commettere l’errore di farsi venire la puzza sotto il naso.
Enrico Cisnetto - www.pensalibero.it