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Perché gli aiuti di Stato danneggiano il Paese e la concorrenza

Perché gli aiuti di Stato danneggiano il Paese e la concorrenza
Sul caso Alitalia, il ministro Patuanelli apre agli aiuti di Stato. Ma sarebbe un grande errore, come spiega Alessandro De Nicola.

«Mi trovo in carcere unicamente per ragioni di concorrenza: facevo le stesse banconote che fa lo Stato». L’aforisma di Woody Allen è più serio di quel che sembra: come dimostra anche l’intervista del 21 dicembre al Ministro Patuanelli, è forte la tentazione in Occidente di permettere allo Stato di derogare ai principi concorrenziali.
Perché l’aiuto statale è un errore

In Europa parliamo delle disposizioni contenute nel Trattato Ue che si fondano su quattro pilastri: divieto di abuso di posizione dominante, di fare cartelli di prezzo territoriali tra imprenditori, di costituire posizioni dominanti che soffochino la competizione e proibizione di concedere aiuti di Stato. Quest’ultima interdizione non è assoluta. I governi possono accordare finanziamenti o acquisire quote di una società purché l’operazione sia conclusa a condizioni di mercato, vale a dire solo se l’avrebbe fatta allo stesso modo anche un privato.

Perché auspicare un rilassamento di queste regole e magari mirare a costituire «campioni nazionali» o «europei» è un errore? Esse servono a non distorcere la concorrenza: se un’impresa che non va bene sa di poter contare su un probabile aiutino statale, è difficile che abbia i giusti incentivi a raddrizzare la barra. La magica parola «Alitalia» spiega tutto. Non solo: l’impresa sovvenzionata farebbe concorrenza sleale alle altre (e alla loro filiera di fornitori) che paradossalmente verrebbero punite per il fatto di andar bene. Non che lo Stato abbia poi dimostrato di saper selezionare le imprese vincenti: più spesso, dall’Alcoa alla vecchia Finsider, ha combinato disastri.
Chi governa non ha informazioni

D’altronde, chi governa non ha informazioni necessarie e tempestive, ha pregiudizi, motivazioni politiche e di potere personale che ne influenzano il giudizio, oltre ad una lentezza di programmazione e decisionale estenuante che, alla fine, rischia di far prendere provvedimenti d’impulso. Inoltre, c’è una ragione molto pratica: se ci fosse il «tana libera tutti» in Europa, avrebbero più possibilità di finanziare le proprie aziende i Paesi con i conti in ordine come Germania, Olanda, Austria o comunque meno traballanti dei nostri come Francia, Spagna e Regno Unito (la Brexit potrebbe non incidere su questo aspetto) o il povero Belpaese con il suo rapporto debito/Pil al 135%?

Peraltro, i trattati per il libero commercio più avanzati, quello tra Ue e Giappone ad esempio, riconoscono esattamente questo problema e introducono delle procedure per limitare i sussidi che i contraenti possono concedere alle loro imprese, poiché questi distorcono pure il libero commercio permettendo il dumping. E son proprio le sovvenzioni di cui godono alcuni prodotti europei una delle scuse che l’amministrazione Trump accampa per imporre dazi sulle nostre merci.

Infine, il fatto che il potere di mercato delle imprese dominanti sia aumentato negli ultimi anni negli Usa rispetto all’Europa, secondo i più recenti studi (Philippon, Cavalleri) ha favorito la competitività del Vecchio Continente: insomma, è sconsigliabile creare o riempire di steroidi dei King-Kong comunitari (o peggio italiani) a scapito dei consumatori e della concorrenza.

Alessandro De Nicola, La Stampa 23 dicembre 2019
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